giovedì 14 giugno 2012

EASY SUNSET

Se c’è una cosa che ha un senso in questa esperienza di vita che abbiamo deciso per noi e soprattutto che abbiamo scelto per le nostre figlie, è avere l’occasione per dimostrare loro la normalità nella diversità, nel far loro capire (o meglio ancora fare in modo che per loro risulti scontato) che le differenze tra le persone, di qualsiasi natura esse siano, sono essenzialmente una fonte di arricchimento.
E’ per questo che mi sono sentita molto a mio agio nel ritrovarmi al playground, verso il tramonto, a chiacchierare con altre mamme, mentre i nostri bambini giocavano insieme: Orson, una piccoletta cino-giapponese, due splendenti sorelline indiane, belle come poche, e due pestiferi e biondissimi fratellini tedeschi.
Avrei mai potuto fare una cosa del genere a Milano, nel parchetto sotto casa? Forse si, ma siamo sicuri che nessuno avrebbe provato fastidio, o disappunto o quant’altro, nel far giocare i propri figli con quelli di persone provenienti da altre parti del mondo?
Io temo di no.
Mi chiedo però se oggigiorno la discriminante sia il colore della pelle o piuttosto la collocazione sociale: intendo, le famiglie che abitano qui e condividono gli spazi comuni con noi sono tutte benestanti, accculturate e – si presume, anche se non é proprio sempre così– beneducate.
La realtà attuale dell’Italia, in termini di multiculturalità e multietnicità é oggettivamente molto più indietro, gli immigrati di seconda generazione ci sono, ma faticano ancora ad emergere da un punto di vista della scala sociale.
Però, resta il fatto che in Italia vedere un africano in giacca e cravatta o un tunisimo con laurea e bacio accademico fa ancora “strano”, sa di eccezione, é un evento, e come tale lo si commenta.
Perché lo si commenta.
Ecco perché ero a mio agio.
Pochi preconcetti e sovrastrutture: solo bambini di tutti i colori e genitori giramondo con cui condividere il fresco della sera.

16 commenti:

  1. ... ed è proprio questo il motivo per il quale, quando ti incontravo sul portone di casa (quella italiana) con le tue perplessità e giustificatissime paure per questa avventura, ho sempre spinto sull'acceleratore dell'ottimismo, e mi sono sempre permessa di dirti che sarebbe stata un'esperienza arricchente e piena, e che valeva la pena di essere vissuta perchè era quell'opportunità che non capita a tutti, quell'occasione che avrebbe permesso a tutti voi di sentivi cittadini del mondo arcobaleno di persone, lingue, cibi, orizzonti, che qui da noi, ancora, è spesso offuscato dalla nebbia dei preconcetti, dell'ignoranza e della poca curiosità nei confronti dell'altro... mi sa che i tre anni... diventeranno di più ;-)

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    1. Grazie. Il tuo ottimismo era contagioso anche sul portone di casa, in effetti.

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  2. Penso che tu abbia centrato in pieno il punto. In USA, per esempio, le ragazze nere del ghetto chiamano "Oreo" le ragazze di colore coi soldi. Gli Oreo sono dei biscotti neri fuori e bianchi dentro.
    E' un po' triste.
    Anche a Washington capita spesso che nello stesso gruppetto di bambini ci siano asiatici, afroamericani, caucasici ecc. Purtroppo pero' ci sono anche quartieri in cui conviene non entrare di notte se si e' bianchi.

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    1. Me ne rendo conto. E infatti non sono necessariamente del partito del "volemose bene".
      Semplicemente, che ciascuno venga valutato per quello che é o che fa, non per altro.E possibilmente SEMPRE con la propria testa.

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  3. Cherry mi ha tolto le parole di bocca! per lo meno per come la vedo io qui in Usa se non si vuole parlare di razzismo, si deve ammettere che c'è un classismo indicibile, che temo sia ugualmente pericoloso e ancora più difficile da smantellare.
    Rimane il fatto che quello che possono vivere e imparare le tue bambine è bello e prezioso

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    1. Credo che gli States siano stati un po' degli "apripista" in tal senso

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  4. cara gio,
    quello che hai vissuto ieri, e che vivrai ogni giorno, e' uno degli aspetti meravigliosi del vivere in paesi come questo, che sono dei porti di mare, con gente da tutto (davvero tutto!) il mondo, piena di esperienze e storie interessanti da raccontare e condividere.
    il mondo e' bello perche' e' vario! e siamo fortunati, noi adulti come i nostri figli, ad avere la possibilita' di vivere questa avventura ogni giorno e di imparare che tutte le persone intorno a noi ci possono insegnare qualcosa: che ricchezza!
    un abbraccio,
    cris

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  5. Secondo me c'è un'altra considerazione da fare, e cioè che in realtà noi non siamo *immigrati* (emigrati?), siamo espatriati, che è molto diverso.
    spesso siamo anche a termine, vale a dire che l'esperienza è limitata a qualche anno, e poi chissà, magari altri paesi, magari di nuovo in italia.
    Ma l'esperienza, a volte dura ma anche bellissima, dell'espatrio è molto diversa da quella, spesso drammatica, dell'immigrazione.

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    1. Mmmm...tema difficile questo, ma in definitiva per noi che siamo lontani dal nostro paese forse più "sentito" perché parte della nostra quotidianità, non trovate?

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  6. Considerazione di un anziano che vive in Italia, in questo periodo: mi auguro che tutti voi "espatriati" prima o poi torniate e che non dimentichiate. Saluti
    Barbariccia

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    1. Onestamente ora come ora é anche il mio augurio: restare fuori mi saprebbe un po' di sconfitta.

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  7. L'altro giorno mia suocera ha portato Guu hai giardinetti e l'ha fatto giocare con l'unico bimbo che c'era: un filippino. Poi è tornata a casa e me l'ha raccontato a mezza voce, con la faccia di quella che aveva fatto qualcosa ma non era sicura che fosse giusta. Io ci sono rimasta male per il tono, il modo in cui lo ha raccontato. Che differenza fa se Guu gioca con Adam o con GianMario? L'importante sia che giochi, o no? Ma mi rendo conto che non è così semplice e più crescerà più sarà difficile l'avventura del gioco al parchetto. Perchè come dici tu, noi mamme retrograde guarderemo anche il colore della pelle del bimbo con cui giocherà il nostro piccolo chiedendoci che famiglia avrà, prima di chiederci se il nostro principino abbia trovato un nuovo amico o meno.

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    1. Diciamo che il porsi il dilemma é secondo me già tanto. Significa porsi in modo critico verso sè stessi, quanto meno.

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